di Luca Salomone
Desertificazione commerciale: percezione e contromisure degli italiani. Così si potrebbe intitolare la nuova indagine che Confcommercio e Swg hanno dedicato al tema, dopo la ricerca diffusa ai primi di febbraio e focalizzata specificamente sulla quantificazione del fenomeno.
Più tristi senza una buona spesa
Non c’è dubbio che per non accorgessi del problema si dovrebbe vivere in totale isolamento e non c’è dubbio che i nostri concittadini vogliano risiedere nei quartieri dove ci sono più esercizi di prossimità, visto che non avere punti vendita vicino a casa può rendere la vita molto scomoda.
La chiusura dei negozi, tuttavia, non è soltanto un problema pratico (fare la spesa), ma incide sull’umore delle persone, comunicando sentimenti di tristezza, solitudine, pericolo...
Sebbene concentrata più al Nord e più fortemente nelle città, la problematica è avvertita in tutto il Paese e in tutte le tipologie di comuni, sia piccoli che grandi e pesa addirittura di più della mancanza di spazi verdi e servizi pubblici, come scuole, ospedali, centri sportivi.
La presenza dei negozi guida le decisioni abitative: per l’88% dei soggetti un buon tessuto commerciale è determinante nella scelta di un quartiere, mentre solo una persona su 10 preferisce vivere in una zona esclusivamente residenziale.
Le ricadute immobiliari
Molto significativi, per conseguenza, gli effetti del tessuto distributivo sui prezzi immobiliari: secondo gli intervistati, uno stesso appartamento potrebbe accrescere il proprio valore almeno del 20%, se collocato in una zona con molti o, almeno alcuni punti vendita. Al contrario si stima che la desertificazione possa abbattere il patrimonio rappresentato da una casa di 15 punti.
Alle attività economiche di prossimità viene riconosciuto un marcato ruolo sociale: per quasi i due terzi degli intervistati (64%) esse rappresentano un’occasione di incontro, che rafforza l’appartenenza alla comunità, ma anche un servizio attento alle persone fragili (59%), un presidio di sicurezza (57%), una garanzia di cura dello spazio pubblico (54%) e un facilitatore dell’integrazione (49%).
Quando si tratta di consumi, gli acquisti, quotidiani o ricorrenti, di farmaci (64%) e tabacchi (59%) vengono fatti prevalentemente ‘sotto casa’.
Invece per abbigliamento (64%), alimentari a lunga conservazione (60%), casalinghi (60%) ed elettronica (53%) i centri commerciali e le altre grandi strutture distributive diventano i luoghi di spesa dominanti, rispetto ai punti vendita centrali o prossimi, dove gli stessi beni registrano percentuali di acquisto molto basse, e comprese fra il 2 e il 5%, dati senz’altro condizionati da differenze di prezzo a loro volta figlie della diversità dei canoni di affitto e di molte altre voci di costo, ma anche del minore potere contrattuale dei piccoli negozi indipendenti.
Ma la scelta di rivolgersi ad altri canali deriva anche proprio dalla rarefazione, o totale assenza di servizi commerciali di vicinato.
Le categorie più colpite dalla strage dei negozi sono, evidentemente, le merceologie ‘rimandabili’, come abbigliamento ed elettronica (46% delle risposte). Ciò non vuol dire però che non siano fortemente minacciati anche commerci essenziali e quotidiani, come gli alimentari (42 per cento).
Si salvano solo le attività destinate a tempo libero e svago (fra le quali bar e ristoranti), percepite in aumento dal 43% degli intervistati.
Quelli che vogliono cambiare casa
Chi avverte il peso della desertificazione in un caso su cinque (22%) arriva addirittura a ipotizzare un cambio di casa, qualora il fenomeno dovesse acuirsi.
L’83% degli intervistati dichiara, come accennato, di provare un senso di tristezza di fronte alla chiusura dei negozi nelle strade della propria città e il 74% ritiene che il problema incida negativamente, e in tutti i sensi (materiali e morali), sulla qualità della vita.
Forte è, poi, la consapevolezza della difficoltà di una possibile riapertura: il 56% sostiene che difficilmente un negozio chiuso nel proprio quartiere verrà sostituito da un altro, equivalente o meno. E anche qui pesano parecchio i costi di locazione, che drenano gran parte del fatturato delle piccole o piccolissime aziende retail.
La quota di cittadini che percepisce, nel proprio quartiere, fenomeni generali di desertificazione è tuttavia identica a quella di chi parla di una crescita delle attività (39%) e questo è indicativo non solo di un certo dinamismo delle imprese del terziario, ma anche di una geografia del fenomeno piuttosto differenziata: se al Nord i processi di desertificazione sono segnalati dal 43% degli abitanti, nel Mezzogiorno vengono avvertiti dal 31% dei soggetti. Inoltre, le chiusure sono più pesanti nelle città tra 100 mila e 250 mila abitanti, meno in quelle fra 30 mila e 100 mila, cosa di cui gli italiani si rendono ben conto.
Ma il vissuto della desertificazione è differente: chi vive nei centri medio-grandi teme l’incremento del degrado urbano e la riduzione della sicurezza, mentre chi abita nelle cittadine o nei Paesi, paventa la diminuzione delle occasioni di lavoro, che porta invariabilmente allo spopolamento.
Nota metodologica: l'indagine quantitativa è stata condotta mediante interviste online con metodo Cawi su un campione composto da 1.204 cittadini italiani tra i 18 e gli 80 anni, rappresentativi della popolazione per genere, età, area geografica e ampiezza del Comune di residenza. Le interviste sono state somministrate dal 9 al 12 aprile 2024.