di Luca Salomone

Dopo la ripresa post-Covid, peggiora nuovamente lo stato di salute del tessuto imprenditoriale italiano. Secondo l’analisi aggiornata dell’Osservatorio rischio imprese di Cerved, tra il 2021 e il 2022 le società che potrebbero andare verso un default sono cresciute quasi del 2%, passando dal 14,4 al 16,1% e raggiungendo le 99.000 unità (+11.000), con 11 miliardi di euro in più di debiti finanziari, ora pari a 107 miliardi (10,7% del totale).

Restano lontani, tuttavia, i picchi del 2020, quando le aziende potenzialmente rischiose erano 134.000 (21,7%). Eppure, l’inversione del trend preoccupa gli analisti.

Trecento miliardi di debiti

Se poi si considerano anche le società cosiddette ‘vulnerabili’, che nel triennio 2019-2022 sono passate dal 29,3% (181.000) al 32,6% (201.000), i debiti finanziari crescono di altri 195,8 miliardi di euro (+28 miliardi), pari al 19,5% del totale, per arrivare a un totale superiore ai 300 miliardi.

Sul fronte dell’occupazione, parliamo di più di 3 milioni di lavoratori, quasi 1 su 3 (30,5%), impiegati in società ‘fragili’: infatti, agli 831.000 addetti delle imprese più in pericolo (l’8,5%, +129.000 persone rispetto al 2021), vanno aggiunti gli oltre 2,1 milioni che lavorano in società considerate vulnerabili (21,9%, +228.000).

Le imprese deboli si trovano soprattutto al Sud, dove costituiscono addirittura il 60,1% del totale, aggravando il già ampio divario con il Nord del Paese: le province con i peggioramenti più significativi sono infatti Isernia, il Sud della Sardegna, Matera, Foggia e Cagliari (ma anche Roma), mentre quelle con la maggiore quota di aziende a rischio sono Crotone, Terni, la stessa Isernia, Reggio Calabria, Messina, Siracusa e Cosenza.

Un nuovo campo minato

«Le stime si basano sull’analisi dell’andamento di 618.000 società di capitale nel periodo 2019-2022 – spiega Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved - valutato attraverso Cerved group score, un indice di che calcola le probabilità di default delle aziende in chiave prospettica. Le tempestive misure di salvaguardia, adottate durate la pandemia, hanno contribuito a mettere in sicurezza il sistema, e il forte rimbalzo delle performance economiche legate agli effetti del Pnrr ha portato a disegnare scenari migliorativi. Tuttavia, le condizioni subentrate nei primi mesi del 2022 - l’aggravarsi dei rincari delle materie prime e il conflitto russo-ucraino, seguiti da inflazione, aumento del costo del debito, graduale eliminazione delle misure di sostegno - hanno purtroppo minato, ancora una volta, la capacità di tenuta di un sistema produttivo già debilitato».

Più in dettaglio, sono 111 i settori, sui 233 analizzati – di fatto quasi la metà -, che tra il 2021 e il 2022 mostrano un aumento della quota di imprese in area di rischio.

I settori più esposti

I comparti più impattati risultano le costruzioni (dal 15,2 al 17,6% di società a rischio) e i servizi (dal 14,9 al 16,7%); a livello più disaggregato, i settori più colpiti rientrano nei servizi non finanziari (in particolare ristorazione e alberghi), nei trasporti (gestione aeroporti) e nell’industria pesante (siderurgia).

Risultano in difficoltà anche alcuni segmenti agricoli, come la produzione di mangimi per animali (11,3%, +3,9%) e la lavorazione di cereali (11,7%, +3,4), penalizzati dal blocco degli approvvigionamenti dovuto al conflitto in Ucraina.

Diversamente il settore energetico, nonostante l’aumento di 1,2 punti percentuali, rimane l’unico ad attestarsi su livelli leggermente inferiori al 2019 (15%), anche se con una notevole eterogeneità al suo interno.

L’industria in generale, che aveva registrato un significativo miglioramento nel 2021 (11,3% di imprese a rischio) dopo la profonda crisi dovuta alla pandemia (dal 9,9% del 2019 al 19,6% del 2020), è risalita al 12,6% di rischio, per il rallentamento della domanda globale e l’incidenza dei costi energetici

Anche tra 10 settori con la più alta quota di imprese minacciate otto appartengono ai servizi: trasporti aerei (41,2%), parrucchieri e istituti di bellezza (37,8%), distribuzione al dettaglio di articoli di moda (36,4%).

Quanto poi alle dimensioni, il peggioramento è più consistente tra le micro-imprese (dal 14,9 al 16,7%) e le piccole (dall’8 al 9,9%), già maggiormente colpite dalla pandemia e più esposte agli effetti dei rincari.