Finalmente, da questa settimana, la ristorazione si rimette in pista, con i locali che possono svolgere l’attività al chiuso. Ma non si può dimenticare che il bilancio, tracciato, il 18 maggio, dall’ultimo rapporto Fipe-Confcommercio, è un vero bollettino di guerra.

In 14 mesi l’occupazione del settore è collassata e, comprendendo alcuni servizi di alloggio, si sono persi 514.000 posti di lavoro, pari al doppio dei 245.000 creati fra il 2013 al 2019.

Il 97,5% delle imprese ha registrato, nell’esercizio 2020, un calo di fatturato ingente, che per oltre 6 ristoratori su 10, si è concretizzato in una taglio degli introiti di oltre il 50% rispetto al 2019.

Non solo: il clima di fiducia degli operatori ha toccato un minimo storico e, se nel 2010 le nuove attività erano state più di 18.000, nel 2020 si sono affacciati sul mercato solo 9.190 locali, già molti, tenendo conto delle pesantissime condizioni, condizioni aggravate, secondo una sondaggio condotto da Fipe e Format Research, da sostegni che l’89,2% degli addetti ai lavori giudica inutili, o poco efficaci.

Oggi, in effetti, la speranza sembra tornare e l’84,3% dei ristoratori scommette su una ripresa, subordinata però alla fine dell’emergenza. Secondo gli intervistati il 2021, infatti, sarà ancora un anno di ricavi in calo, mediamente del 20%. Il 66% dei responsabili di grandi aziende della filiera (industria, distribuzione e ristorazione) prevede un ritorno alla normalità non prima del 2022-2023, mentre il 27% pensa che solo nel 2024 ci sarà una vero ribaltamento di trend.

La crisi non ha travolto solo l’offerta, ma ha influenzato profondamente anche la domanda: se i consumi degli italiani si sono fatti meno sofisticati, la spesa alimentare domestica non è riuscita a coprire nemmeno il 20% di quanto perso con lo stop di bar e ristoranti.

Costretti a casa dai lockdown, gli italiani, in 12 mesi, hanno aumentato di 6 miliardi di euro i propri acquisti al dettagli, ma la somma non ha coperto minimamene l’enorme buco dei pubblici esercizi, i quali hanno visto andare in fumo 31 miliardi di introiti, come dire più di un terzo di una media annua che, in tempi normali, si piazzava sopra gli 85 miliardi.

I dati certificano anche che i nostri connazionali hanno speso meno soprattutto per prodotti agroalimentari di qualità superiore (vino, olio, piatti elaborati), comunemente consumati, in maggiore grado, nel fuori casa. In sostanza la spesa alimentare pro-capite è tornata indietro di 26 anni, al 1994.

Pandemia e restrizioni hanno anche modificato il rapporto tra le persone e i pubblici esercizi. Se a luglio 2020, periodo nel quale i locali erano tornati a lavorare a buoni ritmi, la colazione rappresentava il 28% delle occasioni di consumo complessive, a febbraio 2021 la percentuale è salita al 33%. L’esatto contrario di quanto accaduto con le cene, passate dal 19% a meno dell’11%. A febbraio 2021 colazioni, pranzi e pause di metà mattina hanno addirittura polarizzato l’87% degli scontrini.

“Dal primo lockdown a oggi – spiega Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio – gli imprenditori dei pubblici esercizi hanno vissuto una vera e propria odissea, dovendo fare i conti con il crollo del loro fatturato, l’impossibilità a pianificare l’attività e una diffusa sensazione di accanimento dei provvedimenti, non giustifica da dati sanitari che evidenziassero una maggiore pericolosità della ristorazione. Ai primi 70 giorni di chiusura forzata, si sono aggiunti altri mesi di confusione normativa, collegata all’interpretazione delle prescrizioni da adottare per l’esercizio delle attività, per poi cominciare, subito dopo l’estate, con il valzer dei colori: un vero caos. Eppure, nonostante tutto questo, l’85% degli imprenditori ha sostanzialmente fiducia di tornare in futuro ai livelli pre-pandemia, senza tuttavia l’illusione di un completo recupero, almeno in tempi ragionevoli”.

E poi resta la grande incognita sulla data in cui l’emergenza finirà davvero e restano controversi i pareri sui tempi della ripresa, che i più pessimisti collocano, come abbiamo visto, nel 2024.

In ogni caso gli addetti ai lavori si preparano e individuano due strade maestre. Per il 27% dei soggetti, gli imprenditori dovranno puntare su un incremento dei servizi digitali, a cominciare dall’home delivery e da forme di take away sostenibili ed efficaci, attraverso menù appositamente studiati.

Un altro 27% suggerisce, invece, di fare leva su un miglioramento della qualità, su una specializzazione identitaria, in grado di garantire riconoscibilità e maggior valore a un bar, o a un ristorante. Sempre più decisiva, in questa ottica, una puntuale attività di marketing e comunicazione.

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