Milioni di consumatori conoscono i marchi di Conserve Italia come Cirio, Valfrutta, Yoga, Derby Blue e Jolly Colombani, ma non tutti sanno che si tratta di una cooperativa di 14.000 produttori agricoli e che lavora 550.000 tonnellate di frutta, pomodoro e vegetali in 12 stabilimenti, di cui 9 in Italia, 2 in Francia e uno in Spagna, dove è presente con la controllata Juver Alimentación. Il fatturato consolidato è di circa 900 milioni di euro, di cui il 40% generato dall’export. In Italia vuol dire più di 3.000 persone, tra lavoratori fissi e stagionali. I marchi storici – a partire da Cirio – si muovono benissimo anche oltre confine, come ci racconta Diego Pariotti, Direttore Commerciale e Marketing della Divisione Estero.

Quanto è dinamico il vostro export?

Molto: pensi che, da più di 10 anni, la nostra crescita è a doppia cifra e, su una scacchiera di una sessantina di Paesi, siamo passati dai circa 90 milioni di dieci anni fa agli attuali 200 milioni e oltre. Dunque, l’attività è più che raddoppiata e ciò ha permesso di divulgare la nostra filosofia e i nostri marchi anche là dove non eravamo conosciuti. In una prima fase Conserve Italia si è proposta con le marche del distributore, il che ci ha permesso di creare una vasta rete di contatti e di fare apprezzare la nostra qualità. L’obiettivo finale, comunque, non era e non è questo, ma di spingere i marchi storici del Gruppo, sui quali da anni stiamo puntando anche in termini produttivi.

Siamo nell’epoca dei protezionismi e separatismi. Che effetti ha avuto la Brexit?

Tutto sommato posso definirlo un incidente di percorso. La Gran Bretagna rimane uno dei nostri mercati principali, una nazione dove abbiamo creato, per primi nel nostro settore, una filiale commerciale di proprietà italiana. Dieci anni fa l’azienda aveva, nel Regno Unito, una quota di poco inferiore a un punto percentuale, mentre oggi siamo intorno al 10 per cento, un vero record per una marca come Cirio che si trova a operare in un bacino altamente competitivo come quello locale. È vero che il nostro è made in Italy, ma il made in Italy è molto bistrattato.

Perché bistrattato?

Perché c’è molto italian sounding e perché ci sono tanti soggetti commerciali che propongono sedicenti prodotti italiani. Credo che in questo Conserve Italia, e i concorrenti tricolore, possano fare la differenza, spingendo gli stranieri a toccare con mano la diversità di quelle aziende che hanno il controllo di tutta la filiera. In sostanza le imitazioni si combattono con fatti e non con parole e questo messaggio – di gestione dell’intero ciclo – è quello che ancora oggi vogliamo diffondere, anche all’estero.

Parliamo dei canali…

Fatto 100 il volume esportato un 85% è costituito dal retail. L’Horeca rimane per noi, tutto sommato, marginale, ma si attesta pur sempre sul 15 per cento. Sfortunatamente questo canale è percorso da trader, o broker, che rappresentano piccole realtà, che altrimenti non avrebbero la capacità di arrivare oltre confine. Questi soggetti ottengono condizioni di prezzo molto particolari, anche se, a modo loro finanziano le produzioni. La nostra offerta, considerando l’alto livello qualitativo, non può competere ad armi pari. Da qualche anno però abbiamo cominciato a investire anche sul food service, per esempio alleandoci con la Federazione italiana cuochi. È cominciato, così, un percorso di alto livello, che porterà a un posizionamento nuovo, più elevato.

Quali sono i vostri prodotti di punta sui mercati stranieri?

All’estero i best seller sono le conserve rosse, ma il mercato è molto ricettivo anche per quanto riguarda i vegetali. Particolarmente apprezzati sono mais, piselli, fagiolini, ma anche legumi tipicamente italiani, come borlotti e ceci. L’elemento più debole è costituito dal segmento frutta: in un certo senso non è difficile produrre un succo, a meno che non ci si proponga con connotazioni particolari, dal senza zucchero, all’utilizzo di mix particolari. Questa è una direzione che noi abbiamo intrapreso da tempo e, in alcune nazioni, come Corea, Canada, Australia, abbiamo trovato opportunità molto interessanti. In caduta libera, per noi e per altri, la frutta in scatola, visto che oggi il prodotto fresco arriva dappertutto. Ma anche qui il fatto di avere produzioni nostre, come quella della pera Williams, ci distingue e ci connota. Diverso il panorama dell’Italia, dove rossi, vegetali e base frutta sono praticamente bilanciati.

Dunque, l’estero vuol dire soprattutto conserve rosse…

Sì e questo, nell’epoca dei ‘protezionismi’ ci ha avvantaggiato, perché il pomodoro è quasi solo italiano, anche per via di caratteristiche organolettiche uniche al mondo e come tali apprezzate. Anche se vino, formaggio, olio sono altrettante eccellenze del nostro Paese, esse non possono vantare tale unicità e sono vissute come concorrenti. Persino la California, che è la più grande area agricola del pianeta, non ci ha mai creato problemi: il mercato Usa è tanto vasto che la produzione interna non riesce minimamente a soddisfarlo, lasciando spazio alle importazioni.

Quali sono i vostri Paesi chiave?

Come tutte le nostre aziende anche Conserve Italia ha cominciato il proprio percorso estero in Europa, moltissimi anni fa. Il nostro continente è fondamentale, visto che schiera Paesi come Francia, Germania, Scandinavia, per non parlare dell’Est… Chiaramente l’importanza dei singoli mercati è funzione diretta dei vari livelli di prodotto interno lordo. Perciò non stupisce che per noi i principali bacini siano, come detto, Francia, Gran Bretagna e Germania dove fra l’altro siamo presenti direttamente, nel primo caso come produttori e negli altri due con filiali commerciali. Per dinamismo, sempre sulla scala europea, si distingue però, da tempo, l’area scandinava dove la penetrazione del prodotto è inferiore e dove il consumatore è molto ben disposto verso nuove proposte, nuovi sapori e nuove tecnologie. Insomma, gli scandinavi sono molto meno ‘conservatori’.

E le aree più dinamiche?

Ovviamente gli alti livelli di consumo non fanno rima con performance elevate, o elevatissime. Perciò Conserve Italia ha guardato più lontano, per esempio in Asia dove parecchie nazioni, come il Giappone, la Cina, la Corea, la Tailandia il Vietnam, l’Indonesia, ci hanno dato e ci danno molte soddisfazioni. Anche qui i pesi cambiano, in funzione del Pil, ma anche della cultura locale. E se il ricco Giappone spicca, devo dire che Cina e Corea stanno facendo passi da gigante verso i nostri prodotti e si attestano su trend a doppia cifra, compresi, a seconda, fra il 10 e il 20 per cento.

Sono anche mercati meno saturi…

Certamente ma, fatta eccezione per il Giappone, parliamo di nazioni con una cittadinanza che comincia a viaggiare, ad avere maggiori capacità di spesa e, dunque, i mezzi per soddisfare tante curiosità e per acquistare beni che non fanno parte del quotidiano. Chiaramente il target primario è composto da ceti più elevati della media, ma le popolazioni locali sono talmente numerose da costituire ‘nicchie’ che, per noi europei, sono grandi mercati, da un centinaio di milioni di consumatori. I cinesi, tanto per fare un esempio, apprezzano moltissimo il vero prodotto italiano e lo considerano sicuro e affidabile, al punto che i consumi sono cresciuti in modo esponenziale da quando la legge ha consentito di avere prima un secondo figlio, nel 2013, e poi, nel 2018, ha tolto ogni limite in questo senso. In Tailandia, secondo esempio, esiste un’importante fascia di expat, cioè di residenti non nativi e benestanti, che sta generando una richiesta molto significativa, alla stregua dai cosiddetti ‘bianchi’ tailandesi. Fra l’altro in Asia il digitale - in Cina i social, per via dei controlli statali - è universalmente diffuso e anche noi stiamo portando avanti progetti telematici, sia in chiave comunicativa che di vendita.