di Emanuele Scarci

Fatturato consolidato intorno ai 300 milioni, con circa 100 milioni di export, in progresso del 6-7%: sono questi i dati chiave del gruppo Divella che in giugno approverà il bilancio 2020. L’anno scorso la pandemia ha accelerato le vendite di pasta, conserve vegetali, farine e biscotti, nel canale della distribuzione moderna, andando oltre la chiusura dell’Horeca. “L’anno scorso - sottolinea Marcello Valentini, direttore export di lungo corso del gruppo Divella - abbiamo superato il pressing del trade che, per il lockdown, ha aumentato gli ordini fino al 30%”. Nel primo trimestre di quest’anno però la musica è cambiata. Le riaperture di ristoranti e bar procedono spedite e bisogna fare i conti con la controcifra, il confronto statistico sfavorevole con il 2020, anche se il dato di raffronto oggettivo non può che essere il 2019. “Sì è inevitabile - concorda Valentini -. Nel primo trimestre del 2021, il calo a volume è intorno al 12/13%. E a valore più o meno lo stesso. Ora è ritornato anche il volantino, dopo essere pressoché scomparso l’anno scorso. I dati delle vendite puntano verso un ritorno al 2019, anno verso cui siamo in lieve crescita”.

Quali sono le novità di prodotto in vista?

Diverse, soprattutto in tema di packaging e di sostenibilità della filiera.

Nel 2019 il gruppo Divella registrò (dati Mediobanca) ricavi consolidati per 281 milioni, un utile operativo di 14,7 milioni e un utile netto di 12 milioni. Debiti finanziari lordi per appena 17 milioni. Quest’anno?

I dati provvisori indicano un consolidato intorno ai 300 milioni. Divella si conferma una macchina ben oliata, multiprodotto e con un buon livello d’internazionalizzazione: circa un terzo dei ricavi all’export. Produciamo pasta, ma anche biscotti: è il secondo business. Eppoi la linea rossa vale una sessantina di milioni. All’estero siamo presenti in 130 paesi e quest’anno abbiamo un importante Progetto Francia: gestiamo integralmente gli scaffali di Leclerc e siamo presenti in migliaia di punti vendita di vicinato. Infine consideri che operiamo con 3 mulini che originano un business rilevante e prodotti contesi da molti operatori.

Nel 2020 Divella è cresciuta nella grande distribuzione del 6,1% a valore e dell’1,7% a volume. Le quote di mercato sono, rispettivamente, il 6,5% e il 9,4%. Ma è solo la media di una presenza disomogenea tra Nord e Sud.

E’ così. Nel Mezzogiorno abbiamo una quota di mercato del 24%. In Puglia abbiamo siamo al 50%, in Calabria e Basilicata al 40% e in Sicilia, mercato difficilissimo, arriviamo all’11%. Da Roma in su siamo meno forti perché la geografia ha il suo peso: paghiamo 5 centesimi di trasporto per essere presenti sugli scaffali del Nord Italia.

A proposito di prezzo della pasta: nel 2020 il prezzo medio Divella è stato di 0,96 euro, il più conveniente tra i Top 7 nazionali. Addirittura inferiore a 1,04 euro delle marche private.

Tutto questo trova una risposta nella macchina ben oliata che le dicevo: Divella produce lo stesso prodotto per l’Italia e l’estero, non lavora per le private label e i suoi grani sono un mix tra Italia ed estero. Le economie di scala che si sviluppano su 450 milioni di pacchetti hanno un ruolo rilevante nel controllo dei costi e quindi del prodotto. E questo permette anche 50-60 milioni di investimenti pubblicitari.

Nel 2020 è partita la sfida sulla pasta italiana 100%: il leader Barilla è passata al prodotto di filiera, quasi subito seguita da De Cecco e Rummo. I dati dicono che se sul packaging c’è scritto 100% italiano si vende di più. Qual è la vostra posizione?

Se si sommano i volumi di questi player del 100% italiano si arriva al 35-40%. Il resto è pasta tradizionale. Del resto la produzione italiana di grano duro è insufficiente a soddisfare la domanda. E dall’estero arrivano grani di ottima qualità. La materia prima Divella conserva un livello proteico del 13,5-14%. In conclusione, non riteniamo che la svolta del 100% italiano sia una minaccia, anzi a noi questo approccio sembra riduttivo: il focus va posto in termini di sostenibilità dell’intera filiera. E’ certamente più importante del 100% italiano.